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- Junko Tabei, nata nel 1939, scoprì la passione per la montagna durante una gita scolastica al Monte Nasu.
- Nel 1969, Junko fondò lo Joshi-Tohan Club, un club di arrampicata femminile, per superare le discriminazioni nel mondo dell'alpinismo.
- Il 16 giugno, Junko Tabei raggiunse la cima dell'Everest, diventando la prima donna a compiere questa impresa storica.
Nata il 22 settembre 1939 a Miharu, nella prefettura di Fukushima, Junko Ishibashi, poi conosciuta come Junko Tabei, crebbe in un contesto familiare modesto, con due fratelli e quattro sorelle, in un Giappone ancora segnato dalle conseguenze della Seconda guerra mondiale. Fu durante una gita scolastica al Monte Nasu, un vulcano situato nel Parco Nazionale Nikku, che la giovane Junko scoprì la sua passione per la montagna. L’immagine di una vetta diversa dal verde che conosceva la colpì profondamente, segnando l’inizio di un’avventura che l’avrebbe portata a superare ogni ostacolo.
La lotta per l’affermazione in un mondo maschile
Nel Giappone del dopoguerra, la società relegava spesso le donne al ruolo di “angelo del focolare”. Junko, tuttavia, non si lasciò scoraggiare. Frequentò la Showa Women’s University, laureandosi in Letteratura inglese nel 1962, e continuò a coltivare la sua passione per l’alpinismo. Cercò di inserirsi nei club maschili, ma si scontrò con pregiudizi e resistenze, soprattutto da parte dei membri più giovani e inesperti. Fu proprio in questo contesto che conobbe Masanobu Tabei, un esperto alpinista, che divenne suo marito nel 1965. Nel 1969, decisa a superare le discriminazioni, fondò lo Joshi-Tohan Club, un club di arrampicata esclusivamente femminile, con lo slogan: “Andiamo da sole in una spedizione all’estero”. Questo fu un passo fondamentale per affermare la sua indipendenza e la sua determinazione nel mondo dell’alpinismo.
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La conquista dell’Everest: un traguardo storico
Il club di Junko, guidato dallo sherpa Eiko Miyazaki, tentò l’ascesa all’Annapurna III, nel Nepal centrale, scegliendo una via di salita alternativa, quella meridionale. A dispetto delle avversità meteorologiche, il 19 maggio Junko Tabei raggiunse la cima. Questo successo la spinse a chiedere al governo nepalese il permesso di scalare l’Everest. Dopo cinque anni di attesa e una faticosa raccolta fondi, anche grazie al sostegno della televisione giapponese e del quotidiano Yomiuri Shimbun, la spedizione “donne giapponesi per la spedizione sull’Everest” prese forma. Il 4 maggio, una valanga di neve investì il Campo 2, seppellendo sotto il manto nevoso i componenti della squadra. Junko si ritrovò intrappolata nella tenda, schiacciata sotto il peso delle compagne. “Ho cominciato a soffocare e ho pensato a come avrebbero descritto il nostro incidente”, raccontò. Fortunatamente, gli sherpa riuscirono a salvarle. Dodici giorni dopo, Junko, accompagnata dallo sherpa Ang Tsering, ripartì alla conquista della vetta. Il 16 giugno, Junko Tabei arrivò in cima all’Everest, consacrandosi come la prima donna ad aver compiuto tale impresa. “Tutto quello che ho sentito è stato sollievo”, dichiarò, descrivendo la vetta come un “tatami di neve”.

Dalle “Seven Summits” all’impegno per l’ambiente
Dopo la conquista dell’Everest, Junko Tabei non si fermò. Si dedicò alla scalata delle vette più elevate di ogni continente: nel 1980 raggiunse il Kilimangiaro in Africa, nel 1987 l’Aconcagua in Sud America, nel 1988 il Denali in Alaska, nel 1989 l’Elbrus nel Caucaso, nel 1991 il Vinson in Antartide e, infine, nel 1992 il Puncak Jaya in Oceania. Queste ascensioni alle “Seven Summits”, unite ad altri progetti, accrebbero la sua consapevolezza ecologica, preoccupandola dell’impatto del turismo di massa sui fragili ecosistemi montani. All’inizio del nuovo millennio, ritornò nell’ambito accademico, specializzandosi in Scienze ambientali e assumendo la direzione dell’Himalayan Head Trust of Japan, un’organizzazione votata alla conservazione delle aree montane. Nonostante la diagnosi di un tumore nel 2012, Junko continuò a dedicarsi alle scalate fino al giorno della sua morte, avvenuta il 20 ottobre 2016. La sua persona rimane un fulgido esempio di risolutezza, coraggio e impegno per la salvaguardia dell’ambiente.
Un’eredità di ispirazione e resilienza
Junko Tabei, una donna di soli 147 centimetri, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’alpinismo. La sua storia è un esempio di come la passione, la determinazione e la resilienza possano superare ogni ostacolo, anche in un mondo dominato dagli uomini. La sua figura, emancipata e sempre in anticipo sui tempi, ci invita a riflettere sulle sfide che le donne affrontano ancora oggi nel mondo del lavoro e nella società. Come evidenziato dalle ricerche di Claudia Goldin, premio Nobel per l’economia, le donne continuano a guadagnare meno degli uomini e ad avere difficoltà a raggiungere posizioni apicali, un fenomeno noto come “soffitto di cristallo”. La storia di Junko Tabei ci ricorda che è possibile superare questi ostacoli e raggiungere i propri obiettivi, con coraggio, determinazione e un pizzico di follia.
Amici appassionati di montagna e alpinismo, la storia di Junko Tabei ci insegna che la passione può davvero abbattere ogni barriera. Una nozione base da tenere sempre a mente è che l’alpinismo non è solo una sfida fisica, ma anche mentale e sociale. Junko ha dovuto lottare contro i pregiudizi di un’epoca, dimostrando che le donne possono raggiungere vette impensabili. Un concetto più avanzato è quello della sostenibilità in montagna. Junko, negli ultimi anni della sua vita, si è dedicata alla protezione degli ambienti montani, consapevole dell’impatto del turismo di massa. La sua eredità ci invita a riflettere sul nostro ruolo di alpinisti e amanti della natura, spingendoci a un approccio più consapevole e rispettoso dell’ambiente. Cosa possiamo fare, nel nostro piccolo, per proteggere le montagne che amiamo? Come possiamo contribuire a un alpinismo più sostenibile e inclusivo?