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- Tra il 10 e l'11 maggio 1996, la tragedia dell'Everest causò la morte di otto scalatori, all'epoca il numero più alto di decessi in un singolo giorno.
- Un ritardo di quasi un'ora fu causato dalla mancata installazione delle corde fisse sul Balcone (8.350 metri), a causa di un'incomprensione tra gli sherpa.
- La presenza di 33 scalatori causò un pericoloso imbottigliamento all'Hillary Step (8.760 metri), rallentando ulteriormente l'ascesa.
- Jon Krakauer criticò l'uso dell'ossigeno supplementare e la competizione tra le compagnie di spedizione, sostenendo che questi fattori avevano contribuito ad aumentare i rischi.
- Il corpo di Rob Hall fu ritrovato il 23 maggio, ma lasciato sulla montagna su richiesta della moglie.
La montagna più alta del mondo, l’Everest, è stata teatro di numerose tragedie nel corso della sua storia alpinistica. Tra queste, la tragedia del 1996 spicca per il numero di vittime e per le controversie che ne sono seguite. L’evento, avvenuto tra il 10 e l’11 maggio, causò la morte di otto scalatori, segnando, all’epoca, il più alto numero di decessi in un singolo giorno sulle pendici dell’Everest. Questo tragico record è stato poi superato dalla valanga del 2014 e dal terremoto del 2015, ma la tragedia del 1996 rimane un punto di riferimento cruciale nella storia dell’alpinismo moderno.
Cronaca di una Ascesa Fatale
Nella notte del 10 maggio 1996, diverse spedizioni, tra cui la Adventure Consultants guidata da Rob Hall e la Mountain Madness di Scott Fischer, iniziarono l’ascesa verso la vetta dal Campo 4, situato a 7.900 metri. Ben presto, una serie di imprevisti iniziò a compromettere la spedizione. Un’incomprensione tra gli sherpa Ang Dorje e Lopsang Jangbu portò alla mancata installazione delle corde fisse sul Balcone (8.350 metri), causando un ritardo di quasi un’ora. Ulteriori ritardi si verificarono all’Hillary Step (8.760 metri), dove mancavano altre corde fisse. La presenza di ben 33 scalatori quel giorno causò un pericoloso imbottigliamento, rallentando ulteriormente l’ascesa.

La guida Anatolij Bukreev, della spedizione Mountain Madness, raggiunse la cima alle 13:07, scalando senza ossigeno supplementare. Tuttavia, molti scalatori non avevano ancora raggiunto la vetta alle 14:00, l’ora limite per garantire un rientro sicuro al Campo 4. Bukreev iniziò la discesa verso le 14:30, dopo aver aiutato altri scalatori a completare l’ascesa. Nel frattempo, il tempo peggiorava rapidamente, con neve e oscurità che rendevano la discesa estremamente pericolosa.
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La Tempesta e le Operazioni di Soccorso
Il peggioramento delle condizioni meteorologiche trasformò la discesa in una lotta per la sopravvivenza. Scott Fischer rimase bloccato sul Balcone, mentre Hall comunicò via radio che Doug Hansen era vivo ma incosciente. La guida Andy Harris partì in soccorso di Hall e Hansen, portando con sé delle bombole di ossigeno. Molti scalatori si persero nella tempesta, vagando al buio e al gelo.
Neal Beidleman, guida della Mountain Madness, insieme a un gruppo di scalatori, si smarrì a soli 400 metri dal Campo 4. Solo l’intervento di Bukreev, che si avventurò nella tempesta per soccorrere i dispersi, permise di salvare alcune vite. Tuttavia, Yasuko Namba, esausta e inamovibile, fu lasciata indietro, mentre Beck Weathers fu dato per morto.
L’11 maggio, Hall comunicò via radio di trovarsi sulla Cima Sud, impossibilitato a scendere a causa del congelamento. Dopo un’ultima conversazione con la moglie, Hall morì. Il suo corpo fu ritrovato il 23 maggio, ma lasciato sulla montagna su richiesta della moglie. Weathers, miracolosamente, riprese i sensi e raggiunse il campo, dove fu soccorso e successivamente evacuato in elicottero.
Analisi delle Cause e Controversie
La tragedia del 1996 fu causata da una combinazione di fattori, tra cui l’elevato numero di scalatori, i ritardi dovuti alla mancata installazione delle corde fisse, il malore di alcuni scalatori e l’improvvisa tempesta. Jon Krakauer, giornalista presente sulla montagna, criticò l’uso dell’ossigeno supplementare e la competizione tra le compagnie di spedizione, sostenendo che questi fattori avevano contribuito ad aumentare i rischi.
La figura di Anatolij Bukreev fu al centro di una controversia. Krakauer lo accusò di essere sceso troppo presto al Campo 4, lasciando i clienti in difficoltà. Bukreev, dal canto suo, si difese, sostenendo di aver agito in accordo con Fischer per preparare il campo base e fornire assistenza agli scalatori in discesa. La sua versione fu supportata da altri alpinisti, tra cui Simone Moro, che lodarono il suo coraggio e la sua abilità nel soccorrere i dispersi.
Riflessioni Sulla Montagna e la Morte: Un’Eredità Duratura
La tragedia dell’Everest del 1996 ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’alpinismo. Ha sollevato interrogativi sulla commercializzazione della montagna, sull’etica delle spedizioni guidate e sui limiti dell’ambizione umana. Ha messo in luce il coraggio e l’abnegazione di alcuni, ma anche l’egoismo e l’indifferenza di altri.
La montagna, con la sua maestosità e la sua spietatezza, continua ad attrarre scalatori da tutto il mondo, spinti dal desiderio di superare i propri limiti e di conquistare la vetta più alta. Ma la tragedia del 1996 ci ricorda che la montagna non perdona, e che il rispetto per la natura e la prudenza sono fondamentali per evitare di trasformare un sogno in un incubo.
La tragedia dell’Everest del 1996 ci offre una prospettiva profonda sulla natura umana e sulla nostra relazione con l’ambiente montano. La montagna, in tutta la sua grandezza, ci mette di fronte ai nostri limiti e alle nostre fragilità. È un luogo dove il coraggio e la determinazione possono portare a risultati straordinari, ma dove l’errore e l’imprudenza possono avere conseguenze fatali.
Una nozione base di alpinismo che emerge da questa tragedia è l’importanza della pianificazione e della preparazione. Ogni dettaglio, dalla scelta dell’equipaggiamento alla gestione delle risorse, può fare la differenza tra la vita e la morte. Una nozione avanzata è la capacità di prendere decisioni difficili in condizioni estreme. Gli alpinisti devono essere in grado di valutare i rischi, di adattarsi alle circostanze e di rinunciare alla vetta se necessario.
La tragedia dell’Everest del 1996 ci invita a riflettere sul significato dell’alpinismo e sul nostro rapporto con la montagna. Cosa ci spinge a sfidare la natura in ambienti così ostili? Quali sono i limiti che siamo disposti a superare? E qual è il prezzo che siamo disposti a pagare per raggiungere la vetta?